La tradizione di questo piatto affonda le sue radici nel rione Regola, dove un tempo risiedevano tutti i lavoratori del mattatoio Flaminio, la cui retribuzione era integrata dalla testa delle bestie macellate, di cui si utilizzava muso, cervello, guance, lingua, orecchie, palato e persino gli occhi e dalla coda della bestia spellata, utilizzata quest’ultima per fare il brodo.

Successivamente con l’aumento demografico della citta’ il mattatoio fu sostituito da un altro piu’ grande a Testaccio, dove il numero delle macellazioni aumento’ notevolmente. I vaccinari si trovarono a disporre di un maggior numero di teste e di code e si ingegnarono a trovcare per questi pezzi un utilizzo migliore e un consumo piu’ soddisfacente.

L’ispirazione per la ricetta della Coda alla Vaccinara fu data dallo Stufatino col sellero, preparazione gia’ di per se’ gustosa, ma l’aggiunta di ingredienti preziosi, inizialmente rimasti segreti, trasformo’ il nuovo piatto in una ghiottoneria ricercata. Il Testaccio fu definito dal Belli “il luogo dove la plebe corre nella primavera, e piu’ in ottobre a gozzovigliare, stanteche’ nel monte formatosi ne’ bassi tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi i vini. Il prato, inoltre, che trovasi innanzi a detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio è molto opportuno ai sollazzi romorosi.”

La collina si era formata per la consuetudine nell’antica Roma di distruggere, nei pressi del porto fluviale, gli orci di terracotta in cui giungevano le derrate alimentari: vino, olio, granaglie, garum ecc. I cocci, sistemati ordinatamente gli uni sugli altri, nei secoli formarono un piccolo monte alto circa settanta metri con un diametro di ottocento, ricco di anfratti e camere d’aria che garantivano, al suo interno, una temperatura fresca e costante adatta alla conservazione delle merci deperibili.

Quando nell’Ottocento a Monte Testaccio fu collocato il nuovo Macello, si aprirono cinquanta taverne per la vendita di vino, tra queste c’era anche un’osteria i cui proprietari si prestavano a cucinare le parti di scarto, cioe’ il quinto quarto, ricevuto a parziale retribuzione dai Vaccinari.

Non era pensabile, nelle povere case di allor,a pulire, spurgare dal sangue e preparare a dovere cibi tanto  complicati, mentre la coppia dei Mariani, gestori della trattoria, si specializzo’ in queste preparazioni dando vita a molti piatti della cucina romanesca autentica. L’invenzione della Coda alla Vaccinara sembra sia da attribuire alla figlia Ferminia che, dal 1887 in cucina con i genitori, perfeziono’ la ricetta, cocendo insieme alla coda anche le guance del bue, i cosiddetti gaffi, che conferivano morbidezza e sapore unici al piatto, aggiungendo a cottura quasi ultimata sellero, uvetta, pinoli e cioccolato amaro, che prima non c’erano. Francesco, detto Checchino, figlio della Ferminia continuo’ l’attivita’ familiare ristrutturando il locale che, negli anni  30 del Novecento, comincio’ ad essere frequentato dalla buona societa’ romana, merito anche dell’accorsata cantina, realizzata nella grotta scavata fra i cocci delle anfore romane.

Ancora oggi da Checchino, alla quinta generazione, la Coda alla Vaccinara, rappresenta il cavallo di battaglia del locale.

E’ un piatto dalla duplice personalita’, per un verso è un piatto che nasce povero, da molti giudicato espressione di quella romanita’ deteriore  grossolana e volgare; per l’altro verso, invece,  è un cibo sontuoso, degno di grande considerazione,  che puo’ regalare intense emozioni ai veri buongustai.

 

 

Lejla Mancusi Sorrentino ” Er mejo de la cucina romana”